A mia figlia Chiara

Storie di Epilessia

A mia figlia Chiara

A mia figlia Chiara

A mia figlia Chiara
Al Prof. Lino Nobili, Responsabile NPI Istituto Gaslini
Alla Dottoressa Giulia, Prato NPI Istituto Gaslini
Alla Dottoressa Alessandra Biolcati Rinaldi, Psicologa UOS Psicologia, Istituto Gaslini
A tutto il reparto di NPI dell’Istituto Gaslini

PROLOGO

Avevo ipotizzato più volte di poter scrivere una storia inventata, frutto di una fantasia generata dalla nostra realtà.
Nella mente c’erano già protagonista, antagonista, svolgimento e termine.
Ma c’era anche qualcosa che non mi convinceva e faticavo ad individuare la fonte dei miei dubbi.
Stanotte però Chiara, la mia piccola tredicenne, mi ha svegliata per raccontarmi di aver appena fatto un sogno bellissimo nel quale, io e lei, sul lungomare che costeggia l’Ospedale Gaslini, osservavamo il tramonto come tante volte abbiamo fatto davvero.
“Mamma stavo bene!”
È stata questa l’esclamazione gioiosa con la quale ha concluso il suo racconto.
STAVA BENE.
E allora ho capito che non sarebbe stato necessario inventare nulla, quello che dovevo fare era trasformare in parole la storia, la nostra storia.

A dieci anni ancora si corre incontro alla mamma, all’uscita da scuola.
E così hai fatto tu quel giorno, il 19 Dicembre 2019,  uguale a tanti altri giorni.
Mi sembravano così in quel periodo le giornate, tutte irrimediabilmente simili, ma tutte colorate dalla tua presenza.
Nel grigiore di una pioggia incessante ti sei precipitata sotto il mio ombrello e mi hai abbracciata forte.
Avevamo programmato la merenda nella caffetteria che ti piaceva tanto e, mentre guidavo in quella direzione, la tua vocina allegra mi descriveva accuratamente le esperienze condivise con i tuoi compagni, i sorrisi e i rimbrotti delle maestre.
Insomma, come si direbbe, TUTTO NORMALE.
In poco tempo ci siamo ritrovate sedute sugli sgabelli alti che, se liberi, sceglievi sempre, io ordino un the caldo, tu un bicchierone di latte con la schiuma e una crostatina alla crema con la frutta.
TUTTO NORMALE.
Mi sono distratta un attimo distogliendo lo sguardo da te per rivolgerlo al cellulare e, quando mi sono nuovamente girata, tu non c’eri più.
Il tuo corpo era lì, accanto a me, ma i tuoi occhi erano altrove, in un luogo in cui, immediatamente, ho avuto la certezza non fossero mai stati.
Mentre tu, come una bambola di porcellana, fissavi le bollicine create dalla schiuma dentro il bicchiere, io stavo cercando di autoconvincermi che avessi organizzato uno scherzo, ma dentro sapevo bene che non lo avresti mai fatto o, almeno, non così.
Ti chiamo, una prima volta, una seconda, una terza e tu non mi guardi, non ti volti, non mi rispondi.
La certezza che qualcosa di enorme stesse succedendo probabilmente l’ho avuta dal primo istante, ma il tuo silenzio è stato la conferma.
Ho ricordi vaghi e confusi dei trentadue minuti in cui sei stata lontana da me, in un luogo lontanissimo in cui non avrei mai potuto raggiungerti.
Sento ancora, se chiudo gli occhi, le grida delle persone attorno, qualcuno che indica all’operatore del 118 da quanto tempo ti trovassi in quello stato, il conforto che cercavano di darmi ed io che non ti vedevo tornare da me, ed era l’unica cosa su cui riuscivo a concentrami.
TU ERI ANDATA VIA, E NON TORNAVI.
Del viaggio in ambulanza conservo la paura che mi stringeva in una morsa da cui provavo a liberarmi per continuare a sorriderti, ma anche l’emozione improvvisa della tua voce che potevo di nuovo sentire.
Dicevi cose sconclusionate e senza senso e, quando ci ripenso, non so dire  se questo contribuisse a tranquillizzarmi o a gettarmi in un terrore ancora più profondo.
Sembrava tu non avessi paura, eri solo molto sorpresa di ritrovarti, improvvisamente, dallo stare di fronte alla tua buonissima merenda, di colpo in Ospedale, con medici e infermieri che ti ruotavano attorno freneticamente.
Piano piano però, ricominciavi a capirmi, a rispondere correttamente alle mie domande, a rivestire le tue sembianze.
La mia piccola era di nuovo con me.
Del tuo viaggio, breve ma interminabile, non sapevi descrivere nulla.
E ti meravigliavi di tutti quei quesiti che ti venivano posti, ci guardavi come se volessi rassicurarci che tu eri lì e stavi bene.
Nessuno sapeva dirmi che cosa ti fosse accaduto, per COMPRENDERE meglio decidono di farti una Tac.
Mi consentono di restare poco fuori la porta della stanza in cui facevi l’esame, in una posizione tale per cui potessimo vederci.
Sono stati minuti trascorsi come se il tempo si fosse improvvisamente dilatato, infiniti.
Esci da quell’enorme tubo e mi sorridi.
“Non mi hanno fatto male mamma, tranquilla”.
Credo ti fossi accorta di quanto fossi terrorizzata, anche se facevo di tutto per nascondertelo, tu lo sentivi.
Ho atteso il “verdetto” come chi sa che da quel risultato può dipendere il cambiamento di una vita intera.
Anzi di due vite, la tua per prima, e la mia di conseguenza.
“La Tac non ha evidenziato nulla di anomalo”, le parole della Dottoressa risuonano dentro di me e all’inizio faccio addirittura fatica a coglierne il significato.
E poi, finalmente, inizio ad avvertire un lieve sollievo.
Ma se è tutto normale (TUTTO NORMALE), allora che cosa ti ha portata lontana da me così tanto a lungo?
Mi comunicano che è necessario ricoverarti per cercare di capirne di più, e mi spiegano che il primo accertamento da fare sarebbe stato un ELETTROENCEFALOGRAMMA.
Parola non sconosciuta ma completamente lontana dal nostro quotidiano fino a quel momento, ovviamente.
Parola che entrerà, al contrario, in breve, a far parte della nostra nuova NORMALITÀ.
Dallo studio del tecnico di neurofisiopatologia usciamo entrambe provate, sei stata lì dentro per più di un’ora, sei stanca e debilitata dalla mancanza di sonno a cui avevo dovuto sottoporti perché così ci era stato indicato di fare.
Attendiamo il neurologo che aveva esaminato il tuo tracciato in una stanzetta stretta ma molto luminosa. C’era il sole quel giorno, dopo settimane di pioggia, c’era il sole.
Prima di consegnarmi il referto e cercando di essere il più rassicurante possibile, mi spiega che aveva una risposta per spiegare ciò che ti era accaduto in quel locale.
Quello che aveva scatenato l’inferno si chiamava EPILESSIA.
In varie occasioni mi è stato chiesto che cosa io abbia provato al momento della diagnosi e, ancora oggi, a distanza di più di tre anni, non so descriverlo.
All’epoca ne sapevo pochissimo e, nel mio immaginario, figuravo le crisi epilettiche in modo molto differente da ciò che era successo a te.
Ricordo solo un senso di confusione e di paura, a cui è seguita, quasi immediatamente la classica domanda che qualunque genitore pone quando scopre la malattia di un figlio : “C’è una cura?”.
Il Dottore mi spiega che esistono molti farmaci da poter impiegare in questi casi e, considerato il tuo quadro clinico, era opportuno iniziare subito la terapia.
Ti dimettono dopo altri accertamenti fra cui una Risonanza Magnetica dell’encefalo per cui non hai voluto la sedazione e che è stata per te forse il primo vero trauma dal momento della crisi.
Piangevi disperata perché ti sentivi soffocare, ed io, che ti aspettavo fuori, volevo solo correre da te.
Per fortuna mi fanno entrare per l’ultima mezz’ora e ti tranquillizzi un pochino.
Da quell’esperienza tremenda deriva però un’altra buona notizia: la conferma che nel tuo cervello non c’è nulla che non vada.
Torniamo a casa, con il tuo farmaco da prendere mattina e sera e tante domande ancora senza risposta.
Nei giorni successivi non migliori, questi momenti di “ASSENZA”, altro termine adesso familiare e di uso quotidiano, ma che allora conoscevo appena,  si fanno sempre più frequenti, arrivo a contarne fino a 50 al giorno. Nel frattempo faccio mille ricerche e “sfrutto” il mio lavoro ormai decennale nel campo della sanità per cercare la soluzione migliore e, soprattutto, per individuare il luogo e la persona giusta a cui affidarti, poiché avevo capito chiaramente che la tua malattia necessitava di essere monitorata  e tu seguita accuratamente.
Un caro amico medico mi fa due nomi, entrambi ugualmente e professionalmente validissimi, ma mi suggerisce uno dei due perché, a suo parere, io avevo bisogno, oltre che delle sue competenze nell’ambito dell’epilessia, della sua parte umana.
Avendo alle spalle una storia di vita già abbastanza complessa e traumatica, era fondamentale per me avere un supporto anche emotivo forte
Scelgo quindi l’Ospedale Gaslini, e il Primario della Neuropsichiatria dell’Ospedale pediatrico genovese.
Il primo incontro con lui, uomo preparato, paziente e sensibile, chiarisce moltissimi dei miei dubbi e mi consente di iniziare ad orientarmi in un mondo di cui in precedenza avevo soltanto sentito parlare.
Ma la cosa straordinaria è stata la tua reazione.
Non so esattamente che cosa sia accaduto fra te e lui ma quel giorno ha visto la nascita di un rapporto speciale e prezioso, di un legame che oggi è fortissimo e che ti ha permesso di combattere la grande paura che avevi e che, in parte, continui ad avere.
Ho sempre creduto che chi sceglie di fare il medico debba farlo con delle motivazioni molto “potenti” e che, indispensabili quanto quelle professionali, siano le qualità umane.
Ecco, il “tuo” Professore ha entrambe le doti e, per quanto sia stata io che inizialmente ti ho portata da lui seguendo un consiglio dato a me, sei stata poi tu che lo hai davvero SCELTO.
Mentre camminavamo mano nella mano lungo il vialetto che ci riportava alla macchina, al termine della visita mi hai chiesto se saremmo tornate da lui presto, e lo hai fatto con quell’entusiasmo che riservi soltanto alle cose importanti e belle.
Ecco, quello è stato forse anche per me il primo vero momento di pace dopo il tormento di settimane complicate e frenetiche, perché ho avuto la conferma di aver fatto la cosa giusta per te.
E, come sai, io vivo nel costante dubbio di non compiere le scelte giuste, quando si parla della tua vita.
Con questa consapevolezza ho affrontato, dopo circa due settimane, un’altra terribile prima volta.
La crisi che avevo sempre immaginato pensando alla parola epilessia.
Eri seduta in auto accanto a me, cantavamo mentre ti portavo alla tua lezione di danza del lunedì sera.
La tua voce si è spenta di colpo, in pochi secondi il tuo corpo è stato investito da scosse fortissime e incontrollabili.
Eri andata via ancora, in un modo diverso, scioccante e spaventoso.
Non so come sono riuscita a portarti in Ospedale e qualcuno lassù deve averci protette perché in una situazione simile, guidando, il rischio è altissimo ed anche perché dal Pronto Soccorso, eravamo distanti appena 300 metri.
Ti soccorrono immediatamente, le scosse si erano già arrestate, fanno quello che possono per rassicurarmi dicendomi che, essendoci già una diagnosi certa di epilessia generalizzata, purtroppo la probabilità che si verifichino anche questo tipo di crisi, esiste.
Non mi rassicuro e chiamo immediatamente il “tuo” Prof, che invece riesce a tranquillizzarmi fissandoti un appuntamento per il giorno successivo.
Inizia così un percorso molto accidentato, fatto di cambi di terapia, crisi, effetti collaterali dei farmaci che ti costringono ad un ricovero di una settimana in pieno lockdown.
Essere “costretta” alla permanenza nella camera di Ospedale senza poter vedere nessuno all’infuori di me, rafforza ulteriormente il tuo rapporto con i medici, in particolare con il “tuo” Prof, che tutte le mattine viene a salutarti e che è la sola persona in grado di farti sorridere.
Fondamentale la sua presenza in una notte in cui lo chiamano perché tu, piangendo disperatamente, ti rifiuti di prendere la terapia in quello che è stato l’unico atto di ribellione che ti ho vista mettere in atto da quando ti sei ammalata.
Le infermiere, tenerissime, ti fanno parlare con lui, non ho mai saputo che cosa vi siate detti ma, quando ti hanno riaccompagnata in camera non piangevi più, sul tuo viso c’era un timido sorriso, hai preso la terapia e ti sei addormentata serenamente, di fronte alla meraviglia di tutti.
Un altro regalo di quel soggiorno forzato, è stata la conoscenza di un Dottoressa dolcissima e bellissima a cui ti affezioni subito e che diventerà un altro fondamentale punto di riferimento per te e per me.
I colloqui con la psicologa, fino a quel momento possibili solo per via telematica, finalmente in presenza, ti aiutano moltissimo e sono un supporto importantissimo anche per me.
Nessuno è mai felice di stare in Ospedale e certo per noi non è stato diverso, ma sono sicura di poter affermare che tutto l’aiuto che ci è stato dato in quella settimana sia stato un dono.
Un dono che ha creato attorno a noi un abbraccio pieno di cura, affetto, accettazione e conforto, in cui più volte ci siamo rifugiate nei momenti difficili e senza il quale non ce l’avremmo fatta.
Negli anni io e te, che questa battaglia la combattiamo da sole, ci siamo ritrovate parte di una seconda famiglia, che vive nella nostra seconda casa, l’Ospedale Gaslini.
La malattia si sta rivelando molto più tosta di quanto ci aspettassimo ma, ogni mattina e ogni sera, tu ingoi le tue quattro compresse, quattro farmaci diversi che ti danno tregua dalle crisi più violente ma che non ti impediscono, tante volte nell’arco della stessa giornata, di volare via nel tuo mondo.
Sei una ragazzina coraggiosa Tesoro mio, che ha avuto la sfortuna di incontrare l’epilessia ma l’enorme fortuna di vederla trasformata in amore dato e ricevuto.
Ed è un po’ questo il senso di questa storia, semplice ma estremamente complessa, come il mappamondo Lego da 2352 minuscoli pezzetti che hai messo insieme e regalato al tuo Prof.
L’amore e l’impegno con cui lo hai costruito sono la testimonianza di quello che è possibile ottenere quando ci si prende cura di qualcuno.
L’anno scorso, in occasione della giornata internazionale per l’epilessia, la nostra cara Dottoressa Giulia ti ha chiesto di fare un disegno ispirato all’occasione.
Hai disegnato una ballerina che ha l’epilessia.
Proprio come te, hai detto che anche se il suo cervello a volte combina dei guai, lei può ballare lo stesso.
Come balli tu.
Ed è proprio così amore mio.
Si può ballare lo stesso.

P.s. Allego qui di seguito ciò che ha scritto mia figlia Chiara e che ha donato al reparto di NPI dell’Ospedale Gaslini di Genova, e anche il disegno di cui ho parlato più sopra.

Disegno di Chiara

Una bambina di 10 anni è in una caffetteria, ordina latte con cacao, è insieme alla sua mamma.
Ride, parla, scherza fino a quando…inizia a fissare un punto e poi il buio…
Si risveglia in Ospedale, è spaventata, apre gli occhi e vede la sua mamma, può percepire il terrore nei suoi, anche se lei la guarda in modo dolce e le sorride.
I dottori le fanno tanti esami, ma la mamma non è tranquilla, così un giorno la accompagna in un Ospedale vicino al mare.
Lì la bambina inizia a sentirsi al sicuro, perché è circondata da persone che vogliono aiutarla e, come per magia, la paura scompare.
Quello che le è successo si chiama EPILESSIA.
Le insegnano che si può imparare a conviverci e che la vita sarà comunque meravigliosa.
Adesso la bambina questa vita meravigliosa la sta vivendo e vuole raccontarlo.
Oggi tornare in quell’ Ospedale vicino al mare è un po’ come tornare a casa.
Ogni volta ritrova abbracci e sorrisi che le danno nuova forza.
E L’EPILESSIA NON FA PIÚ PAURA!!!

Chiara
NPI Istituto G. Gaslini
Giornata Internazionale per l’epilessia
14/02/2022

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Fiepilessie
gae.pignatelli@gmail.com